L’acqua trattata negli esercizi alimentari: alcune importanti cose da sapere.
Da qualche anno è sempre più facile per i consumatori recarsi presso esercizi di somministrazione (come bar, ristoranti ecc.) e trovarsi di fronte ad acqua trattata al posto delle “classiche” bottiglie di acqua minerale. Tale modalità di erogazione dell’acqua si è rapidamente diffusa per una serie di ragioni, ma cosa comporta per il consumatore?
Cominciamo con qualche dato tecnico e normativo. L’acqua potabile trattata è un’acqua idonea al consumo umano non preconfezionata, somministrata nelle collettività e in altri esercizi pubblici (definizione tratta dalle Linee guida sui dispositivi di trattamento delle acque destinate al consumo umano ai sensi del D.M. 7 febbraio 2012, n. 25 del 20 marzo 2013). Pertanto, è acqua di rubinetto! Ricordiamo che l’acqua “di rubinetto” viene dichiarata potabile a seguito di controlli ufficiali periodici e continui di tipo chimico, fisico e biologico secondo quanto previsto dal D. Lgs. 2 febbraio 2001, n. 31. L’acqua in questione viene poi fatta passare attraverso macchinari che ne modificano il contenuto chimico e microbiologico mediante l’applicazione di processi che dovrebbero dipendere strettamente dalle caratteristiche dell’acqua e dalle necessità d’uso. In particolare, i trattamenti possono essere divisi in trattamenti fisici (quali ad esempio uso di filtri meccanici, uso di resine a scambio ionico, micro- o nano-filtrazione, osmosi inversa, uso di radiazioni ultraviolette) e/o chimici (utilizzo di disinfettanti, gassatura, ecc.). Per definizione di legge, questi trattamenti devono intervenire per modificare le caratteristiche organolettiche dell’acqua rimuovendo sostanze responsabili delle alterazioni dell’odore e del sapore combinando (se richiesto) processi di refrigerazione e gassatura.
Tali trattamenti possono essere applicati nel primo punto di erogazione della struttura o, come più spesso succede, solo ad un punto della rete, magari in corrispondenza, in ambito domestico, del rubinetto della cucina.
Le linee guida citate prima impongono anche dei criteri di scelta basati non sulla convenienza economica e commerciale ma sulle caratteristiche dell’acqua da trattare e sul rispetto delle procedure riguardanti l’installazione, la manutenzione ed il controllo del prodotto per la garanzia dell’efficienza degli apparecchi in uso.
Di solito (sia in ambito domestico sia in quello commerciale), l’impianto viene messo in opera da ditta specializzata, manutenuto e controllato periodicamente per la verifica della pulizia dei filtri presenti, dell’efficienza dalla lampada UV e della corretta aggiunta di anidride carbonica ecc.
Tutto questo è sufficiente ad assicurare la salubrità del prodotto al consumatore? Ovviamente no! Gli esercenti che utilizzano le suddette unità distributive di acqua, in base a disposizioni del Ministero della Salute, attuano una “somministrazione di bevande” e sono pertanto tenuti al rispetto della disciplina vigente, in particolare Reg. (CE) 852/2004, con l’adozione di piani di autocontrollo. La vigilanza sulle unità distributive dovrà seguire le norme sul controllo dei prodotti alimentari ovvero con analisi volte a stabilirne la potabilità. Pertanto, al punto di ingresso nel sistema di trattamento, la rispondenza ed il controllo dei valori parametrici ai requisiti di legge è responsabilità del gestore idrico, in conformità al D.lgs. 31/2001. D’altra parte, rimangono sotto la responsabilità dell’OSA che gestisce l’unità distributiva tutti gli obblighi relativi alla sicurezza alimentare, compresi gli obblighi del sopraggiunto DM n° 25 del 7 febbraio 2012.
A questo punto sorge spontanea una semplice domanda: all’esercente tutto ciò conviene? Ed al consumatore? Vediamo di elencare alcune pro e contro legati al trattamento dell’acqua.
PRO: si limitano di molto gli spazi utilizzati in magazzino, non si hanno accumuli di “vuoti” tipici delle acque confezionate in bottiglia, si evita anche lo spostamento di pesi da parte del personale che ovviamente facilità l’ergonomia del lavoro. Inoltre, si utilizza un prodotto a “Km 0” garantendo un approccio molto più “ecologico” al consumo dell’acqua.
CONTRO: è necessario seguire una rigida procedura di controllo dell’impianto e del prodotto finale (spesso infatti filtri intasati, lampade UV non funzionanti ecc., hanno portato a qualità organolettiche e microbiologiche molto peggiori dell’acqua originale); inoltre il rischio è anche di un’eccessiva demineralizzazione dell’acqua (in particolare nella sua composizione in Calcio e Magnesio) ed anche un eccessivo arricchimento in Sodio che potrebbero comportare anche problemi sanitari al consumatore; infine la possibilità di degenerazione della componente microbiologica (considerando che si parte da acqua potabile questo sarebbe davvero un paradosso).
Ricapitolando ecco quanto necessario all’esercente per l’utilizzo in tranquillità del suo apparecchio:
- Assicurare corretta modalità di installazione ed esecuzione del piano di manutenzione.
- Rispettare i parametri di potabilità.
- Rispettare i parametri di miglioramento dichiarati nel trattamento.
- Gestire correttamente in autocontrollo e riportare il tutto nel piano HACCP
- Informare correttamente il consumatore.
Per quanta riguarda quest’ultimo punto basta far riferimento al D. Lgs. 181/2003 che all’Art.13 prevede che le acque idonee al consumo umano non preconfezionate, somministrate nelle collettività ed in altri esercizi pubblici, devono riportare, ove trattate, la specifica denominazione di vendita “acqua potabile trattata o acqua potabile trattata e gassata” se è stata addizionata di anidride carbonica. Tali diciture vanno poste sulle caraffe, brocche o bottiglie utilizzate, o comunque in modo che il consumatore venga informato.